domenica 22 settembre 2013

 


                                       
 
Torno a Torino e, anche se amo le partenze, sono sempre contenta di tornare.
Trovo ad aspettarmi tante cose da fare, faccende da sbrigare, libri da sistemare, piccoli uomini grigi addetti alle manovre burocratiche che vorrebbero rinchiudermi nell'antro della cittadella fatta di scartoffie, nonchè montagnole di vestiti che mi guardano e che aspettano di essere stirati prima di poter andare a dormire nei loro armadi.
E per me che sono un'ossessiva compulsiva dell'ordine e della pulizia, non è facile ignorarli.
Stamattina però decido di spegnere la luce e di godermi la mia piccola sala cinema, nella mia nuova casa, e a stirare ci penserò più tardi.
Il film che ho scelto è in bianco e nero, è di Woody Allen e si intitola Manhattan. Come sempre cerco qualche informazione sul film e scopro che nell'ottanta ha vinto il premio BAFTA come Miglior Film e Migliore Sceneggiatura, il premio César e il Nastro d'Argento. Ha ricevuto due nomination all'Oscar,  una al Golden Globe, una agli Awards of Japanese Academy e mi fermo qui perchè ha ricevuto molte altre cose ma potrebbe non interessarvi.
Mi viene da chiedermi se questo film è solo un noioso esercizio accademico. Devo dire che, nonostante mi piaccia molto, ho sempre pensato che Woody Allen sia sopravvalutato.
Con tutti questi pregiudizi premo play.
Contro ogni previsione le primissime note della colonna sonora mi rubano il cuore, in un istante: mi riportano alla mente un autunno lontanissimo, piovoso, una sera verso l'ora di cena. Erano gli anni Ottanta e la gente correva verso le proprie case illuminate, in cerca di tepore, lasciando il mondo fuori. Fuori, la via principale del mio quartiere era illuminata dai neon colorati delle insegne dei negozi che si riflettevano sulle strade bagnate creando un effetto arcobaleno dentro al buio della notte che si stava avvicinando. Io ero piccola, ed ero felice che esistesse una cosa misteriosa come la notte, e che esistesse un mondo che veniva bagnato dalla pioggia. Mi ricordo che dal sottofondo della tv proveniva proprio questa musica.
 
 
Quella musica, a sua volta, mi faceva pensare ad una città lontana, piena di gente che la sera tornava a casa ma che poi usciva di nuovo o, per lo meno, rimaneva sveglia davanti a degli oggetti chiamati computer, una città mitizzata dai film e vista solo nelle foto. Questa città per me era il simbolo dell'Altrove, di ciò che esisteva dall'altra parte del mondo, che stava lì anche se io non l'avevo mai visto, e il caso vuole che fosse un luogo dove le tartarughe di notte si infilavano nei tombini per imparare le arti marziali da un topo gigante, un posto dove uscivi per bere qualcosa dopo cena e se non facevi attenzione potevi capitare in un quartiere chiamato Chinatown, dove poteva succederti di infilarti in grossi guai, sempre tra le insegne al neon e sotto la pioggia.
 
Mi stacco da queste reminescenze proprio in tempo. Partono le immagini ed ecco Manhattan che si infila negli occhi con una potenza che mi fa dematerializzare e mi porta via della stanza, eccomi tra le strade di New York. Forse nessuno è riuscito a rendere così bene l'ideale di bellezza che appartiene a questa città.
 
 
 
Segue subito un bell'incipit "monologato" in perfetto stile Allen, e se hai qualche pregiudizio come me, può sembrarti un po' noioso ma poi se ascolti bene e lasci andare il film ti rendi conto che, tra le idiosincrasie e le paranoie, dice delle cose sensate e anche molto belle come quando fa l'elenco delle cose per cui vale la pena vivere.
 
 
Mi piace moltissimo la scelta del bianco e nero che sublima tutto e che riesce a rendere, forse meglio che attraverso l'uso del colore, il senso delle luci e delle ombre. E poi il bianco e nero è da sempre la possibilità di fermare il tempo, o meglio di creare un'astrazione dal tempo stesso cristallizzando la realtà e anche questo mi piace molto.
Mi lascio portare via e mi immergo nel film.
 
La storia si rivela piuttosto semplice: un uomo sui quarantanni viene lasciato dalla moglie, la quale non sopportava più le di lui paranoie, e lui si innamora di una ragazzina di diciassette anni, dando però per scontato che la storia con la giovanissima Tracy sia solo un momento, un passaggio con una data di scadenza dovuta alla grande differenza di età tra i due. Isaac però si accorge ben presto che dentro a quel "momento" c'è tutta la purezza, lo slancio e la bellezza della giovinezza intesa come metafora stessa della vita. Quel momento acquista valore come sempre troppo tardi, dopo che il nostro amico, invaghitosi di una quarantenne (extracolta e raffinata, ma nevrastenica e indecisa) viene di nuovo lasciato.
Ed è tra un vernissage e una mostra d'arte contemporanea, tra le cene fintissime con presunti amici e i fallimenti professionali, che riappare il volto di Tracy, una delle cose per cui vale la pena vivere, come un bicchiere d'acqua incontaminato in contrapposizione all'acqua marrone che esce dai rubinetti dell'appartamento di Isaac, un'acqua torbida che diventa simbolo delle mutazioni del cuore degli abitanti della città stessa.

 


 
Ritorno nella mia stanza dopo un paio d'ore. Wow! Sono stata a New York negli anni settanta e questo tipo  di viaggio, nello spazio e nel tempo, non lo si può comprare, non è un articolo di cui il vostro tour operator di fiducia possa disporre.
Il potere del cinema! Non esiste crisi per chi lo ama, e per chi ama l'arte in generale, perchè i più grandi piaceri, ne sono convinta, non sono quelli che acquistiamo ma quelli che ci concediamo, sono le ore che riusciamo a sottrarre all'ordine del giorno.
"Con gli occhi posso rubare tutto ciò che vedo e portarmi tutto a casa, senza i limiti di peso per le valigie imposti da Ryan Air, e a casa potrò rivedere e rivivere tutto semplicemente sdraiandomi sul mio divano e chiudendo gli occhi".
Che bel modo di pensare. Spero di riuscire ad accumulare dentro ai miei occhi il maggior numero possibile di bei ricordi, nella mia vita.
Questa mattina di reminescenze, sottratta allo stiraggio, sarà senz'altro uno di questi.

 

venerdì 30 agosto 2013

 
 
Cambi casa, dai il bianco, cambi quartiere, cambi i mobili, scegli i colori della tua vita, vai dal parrucchiere, bevi una Ceres, vai al supermercato e di fronte al murale dei crackers ti rendi conto che:
-stai lavorando 13 ore al giorno
-esistono almeno 72 tipologie di crackers
e capisci che queste due cose in qualche modo sono collegate.
L'impero di Cindia, lo smog a Pechino, le persone, tantissime, e mica tutte hanno l'acqua corrente, anche se in Brasile in effetti le cose stanno migliorando ma chi vive a Rio forse non la pensa così, e tu col tuo piccolo martello da orafo batti sul cinturino di metallo dell'orologio di una persona che non conosci , per farglielo della misura richiesta, la misura più comoda che agevolerà la sua vita quotidiana o forse farà solo una carezza alla sua psicosomatica, e intanto intorno a te la gente muore, la gente che ami se ne va senza darti neanche il tempo di conoscerla bene, e arriva la sera e ti stendi sul letto e leggi due pagine di Terzani e due pagine di Gogol e chissà cosa leggerà Obama prima di dormire, e ti addormenti sognando il Far West, sognando di sfrecciare dentro alla Monument Valley, sognando la solita veranda nel Montana dove con una tazza di caffè nero in mano, su una sedia a dondolo, hai il tempo dell'eterno per leggere tutti i libri del mondo ma invece non li leggi perchè sei stanco e ti addormenti e al posto di leggere sogni.
Ma fai sogni meravigliosi.
Ti svegli con lo yogurt di capra, le vitamine il caffè e Gossip Girl e sai che nulla di ciò che hai elencato serve a qualcosa, ma è li, pronto per essere consumato, per creare un'illusione di benessere.
Fuori, quel rumore costante di vita che brucia come benzina dentro ad un motore, tu dentro che compri quantità industriali di film bellissimi che non sai quando guardare e intanto pensi al rumore del mare e ti accorgi che le tue orecchie ne hanno bisogno come del pane quando hai fame e intanto pensi alla sensazione dei piedi scalzi sull'erba, alla penombra dei boschetti, e vorresti essere Renzo che dorme sotto agli alberi nella provincia italiana, in fuga dai bravi, a inseguire l'amore, a fuggire la morte.
E la pagina stampata resta la tua àncora.
E la pellicola resta l'idealizzazione del mondo che vorresti, dell'idea di uomo, senza sbavature, senza incrinazioni, solo screziature, come dentro ad una pietra lucente, trasparente e perfetta.

  • "La fine è il mio inizio" Tiziano Terzani
  • "Le anime morte" Nikolaj Gogol
  • "Americana"  Don De Lillo
  • "Il vaso di pandora" G.W. Pabst
  • "Luci della città" C. Chaplin
  • "Manhattan" W. Allen

 



martedì 13 agosto 2013

 
È già passato un anno da quando ho cominciato a scrivere qui.
In questo anno sono successe cose bellissime ma anche cose bruttissime. Cose drammatiche, comiche e anche tragiche, perchè è proprio vero che la vita è come il teatro e viceversa, all'infinito.
Di quest'anno ricordo soprattutto che sono successe cose che non avrei mai potuto immaginare sarebbero accadute. Invece le infinite possibilità che si creano dall'intersecarsi delle strade, delle persone e delle storie di quell'enorme baraccone che chiamiamo pianeta Terra, hanno superato di gran lunga la fantasia, il romanzo, la fiction.
Ho smesso di scrivere per un mese perchè proprio allo scadere di questo anniversario sono successe cose più grandi di me e ho dovuto gestirle e adattarmi al cambiamento, imparando nuove strade da una persona che ha un coraggio e una forza smisurati, sovrumani e che io stimo oggi come non mai.
In questo mese non ho avuto il tempo nè di leggere nè di scrivere nè di guardare i film che tanto amo, ma questo non ha fatto altro che rafforzare in me la convinzione che i bisogni dell'anima sono forti tanto quanto gli stimoli delle necessità fisiche, almeno per quanto mi riguarda, e che vanno soddisfatti affinchè non muoia in noi la consapevolezza di essere ognuno protagonista della più grande storia che per ora si conosca, quella dell'Umanità.
Ora, dopo il mio terremoto personale, le mura si stanno riassestando e come ogni volta comincio subito a ricostruire, ansiosa, come sempre, di mangiarmi la vita e di non sprecare un giorno.
 
Ho cominciato da una settimana a costruire il mondo esterno, quello intorno a me, lavorando duro.
Ho cominciato un anno fa a rimettere le fondamenta dentro me stessa, uscente da una vita vecchia, diretta verso una vita nuova e sconosciuta.
E oggi ho messo un altro mattone di una nuova me quando (guidando sotto il sole bollente, dentro un'afa piacevole, quasi evocativa, tra le strade di una Torino sempre più deserta) mi è arrivata addosso una secchiata di brividi sotto la pelle, perchè alla radio è passata "The ghost of Tom Joad".
La città era mia e mi sentivo libera, libera come il pazzo che in Nuovo Cinema Paradiso va in giro gridando "La piazza è mia!", libera, affamata e appagata.
Auguro a tutti voi di sentirsi così almeno una volta, sorpresi dalla sottile poesia della vita senza un vero motivo e senza una ragione grandiosa, mentre eravate nel silenzio di voi stessi a fare tutt'altro.
 
p.s. Non ho smesso di comprare libri e dvd. Presto ve li "racconterò" :-)
 
Vale
 
 

lunedì 15 luglio 2013


 
Stavamo festeggiando nel quartiere Vanchiglia. Era una notte bianca, ma Dostoevski non c’era, c’erano le strade chiuse al traffico delle automobili e tutti i negozi all’esterno avevano improvvisato dei piccoli dehors dove potevi bere, mangiare, tirare le freccette, farti fare un orlo al pantalone o magari farti predire il futuro.  Nelle stradine si stava riversando un fiume di gente di ogni tipo, giovani vecchi e bambini mescolati insieme, ma la persone che ti colpivano di più erano quelle che non uscivano mai, le riconoscevi dal loro guardarsi intorno con occhi meravigliati un po’ come quando cammini a Venezia e vedi l’acqua al posto delle strade e non ci credi e ti aspetti di vedere il Don Giovanni passare su una gondola. Anche Torino quella sera sembrava una città diversa, una piccola metropoli anteguerra, senza le macchine, una città strana fatta di voci, musica e bancarelle colorate, di gente normale, di comuni spettatori, non i soliti vecchi noiosi protagonisti del nulla.
Più di tutti mi ricordo di un ragazzino, affacciato ad un balcone del primo piano di un palazzo proprio di fronte ad uno dei locali più affollati, guardava tutti affascinato e mi sembrava  non potesse scendere, forse perché i suoi non volevano. Però era sereno. Sembrava sapere cosa ci sarebbe successo di li a poco, ma chissà come facesse a saperlo proprio non saprei dire.
Noi avevamo già qualche birra di troppo in corpo e decidemmo di buttarle giù con dei bicchierini di vodka, giusto due o tre. Eravamo davvero un bel gruppetto e ci stavamo divertendo, quando ad un certo punto passammo davanti ad uno strano marchingegno spiaggiato su un marciapiede, una sorta di padiglione di plastica rigido, simile a quelli che servono a captare le onde per la radio, ma questo era piuttosto grosso o forse ci sembrava grosso perché non ne avevamo mai visto uno tanto da vicino. Un gruppetto come il nostro, solo un po’ diversi (anche loro in cosa fossero diversi proprio non saprei dire) ci sussurrò con una sola, inquietante voce : “Fate attenzione, quello emette radiazioni”.

Il potere delle parole. Al suono dei fonemi che compongono la parola “radiazioni” il nostro cuore piombò in un abisso di pavidità. Le ginocchia tremano, mentre i più ottimisti provano a dire “Dai figurati, non è niente”. Ma poi qualcuno in mezzo alla folla sale su una macchina e indica la Mole gridando “Guardate la!!!” Il dito stava indicando la punta della Mole che vibrava come un’antenna. Ci accorgemmo che dal padellone grigio stavano partendo delle emanazioni di tipo ignoto a metà tra lo stato gassoso e liquido, che  infrangendosi alla base della Mole la facevano  vibrare dal basso verso l’alto, circondata da anelli fluidi simili a neon di colore fuxia, poi blu, poi giallo. La costruzione smise di vibrare per un istante. Poi esplose sotto gli occhi increduli e le bocche aperte della folla. In un istante vicino ai padelloni si manifestarono degli uomini vestiti di grigio con indosso delle vecchie maschere antigas. L’effetto di straniamento era totale, non sapevamo più in che epoca fossimo, la visione era futuristico-apocalittica, ma i dettagli provenivano dal passato.
Che cos’è il panico? Come si scatena? Il panico è un grido, anzi, il primo grido. Dopo di esso la pallina non potrà fare nient’altro che scivolare in discesa. La gente intorno a noi cominciò a correre senza capire cosa stesse succedendo e noi, senza essercene nemmeno accorti, stavamo già correndo insieme a tutti loro. Le strade si alzavano, come fossero ponti mobili, si alzavano e si abbassavano mettendoci in condizioni di salita e di discesa ogni volta. Quando si abbassavano si riempivano d’acqua, quando si alzavano l’acqua si ritirava. Non potevamo credere ai nostri occhi: quale forza è in grado di sollevare le strade come fossero tavoli di legno, senza spezzarle o romperle o farle sbriciolare? Che tipo di energia stava influendo sulle leggi della fisica conosciute fino a pochi minuti fa? Era come esserci materializzati dentro ad un incubo. Uscivamo dall’acqua ogni volta più stanchi ma più veloci perché sempre più impauriti. Correndo verso un punto indefinito mi venne spontaneo girarmi e vidi qualcosa che il mio cervello associò immediatamente alla parola Astronave: grande come l’orizzonte, copriva il cielo e si mescolava al colore della notte. Strane creature scendevano dalla scaletta che fuoriusciva dalla pancia della nave rimasta sospesa al centro del cielo, e mentre questi strani esseri si catapultavano sulla terra lanciavano raggi di luce bianca contro le persone, che cadevano a terra svenute, chissà, forse morte. Nessuno più disse una parola, ma i nostri occhi si raccontaronoo che quella che stavamo vedendo era la fine, secondo le modalità con cui Hollywood aveva sempre profetizzato sarebbe avvenuta.
Ci separammo con la promessa di incontrarci da li a breve, perché tutti erano in ansia per le proprie famiglie e volevano riunirsi ad esse. Con i pochi rimasti mi avviai verso casa ma proprio davanti alla panetteria sotto casa mia, dal portone del fornaio uscì un commando di uomini incravattati, anch’essi grigi come quelli con le maschere antigas, solo che questi avevano delle cravatte color antracite, un libro verde in mano e delle ricetrasmittenti in perfetto stile anni ’80.  Si misero a camminare dietro di noi e ad ogni passo ci incalzavano dicendoci

“ Siete sopravvissuti alle radiazioni, alle maree mobili e agli alieni, ma non sopravvivrete a Noi perché Noi abbiamo deciso che Voi non potete passare visto che questa è la fine”.

Resistemmo al loro magnetismo e non ci girammo a guardarli. Sembravano poterci convincere di avere paura di loro ma allo stesso tempo non potevano farci nulla se noi non glielo permettevamo. Forti di questa nuova consapevolezza ci tuffammo nell’androne di casa mia ma le scale risultarono più affollate di uno stadio durante il Super Bowl.  A fatica e a spintoni giungemmo finalmente nel mio appartamento dove c’era mio padre ad aspettarci:  non c’erano  più le porte e alcuni muri erano crollati, ma lui era tranquillo e dentro c’era un sacco di gente che non conoscevo, ma che sembrava abitare li. Cominciai a cucinare qualcosa per tutti, perché ci venne fame, come sempre succede dopo un grande spavento, forse lo stomaco vuole ricordarci che siamo ancora vivi. Fuori non si sentiva volare una mosca e alcuni abitanti del mio appartamento decisero di preparare dei bagagli con la mia roba. Li lasciai fare perche mi venne in mente che Battiato cantava che alla fine del mondo non ci servirà l’inglese.

Cosa questo c’entri … non saprei dire neanche questo, ma è ciò che mi venne in mente.

In quel momento comincio a pensare che forse il peggio è passato e che se siamo li tutti insieme, a casa mia forse possiamo ancora farcela. Ma uno dei miei nuovi coinquilini mi fa notare che fuori dalla finestra sta succedendo qualcosa. C’è un pianeta nel cielo, è un pianeta non c’è dubbio, una palla gigantesca di materia luminosa ma perfettamente definita, che oscura il cielo, e che punta dritto verso di noi, silenzioso e inarrestabile.
È davvero la fine. Ci stringiamo l’un l’altro, pronti all’impatto. Il pianeta è sempre più vicino, gira su stesso ad una velocità sproporzionata per quelle dimensioni, con un’assenza di rumore altrettanto inquietante. L’unica cosa che riesco a pensare è “Forse è un privilegio essere qui, coscienti e presenti a sé stessi per vederlo. È uno spettacolo maestoso”.
Poi l’impatto, il buio, la fine, eccolo il momento presente, solido e cristallizzato in tutta la sua sconcertante concretezza. La morte il nulla il buio il silenzio. Eccovi, compagni di una vita, trascorsa a temervi. I vostri volti ora sono davanti a me.
Stringo chi ho intorno e chiudo gli occhi proprio mentre il cuore si ferma. Ancora silenzio.

Non sento lacerarsi nulla e allora riapro gli occhi. Sono ancora nella stanza e tutti sono ancora li al loro posto, stretti uno contro l’altro. Solo non c’è più il tetto. Siamo ancora tutti qui,  consapevoli di essere morti ma stranamente calmi e nello stesso posto.
Perché? Chiedo a mio padre.
Perché la morte alla fine è questo: soltanto un sogno, un sogno pieno di luce.
Chiudo e riapro gli occhi. Se è un sogno, allora l’unica cosa che devo fare è svegliarmi.
 
 
 

domenica 30 giugno 2013



Per citare il titolo di un film: la vita é davvero una cosa meravigliosa.
Nonostante il dolore, nonostante i distacchi, le disillusioni e i lutti.
Esiste una cosa come il rumore delle onde sul bagnasciuga. Esiste il tatto. Esiste il cuore e il volersi bene. Esistono le passioni, gli odori, esiste il concerto per piano n.1 di Tchaikovsky, esistono Mélies e la letteratura orientale ed esiste anche il panino del porcaro con le salse e il formaggio, da mangiare di notte, tra un morso e uno sbadiglio, mentre la luna ti guarda.
Purtroppo una persona che conoscevo non c'è più. Se n'é andata così, nell'arco di una sera, è andata in bagno si è accasciata a terra e non è mai più tornata.
Lavorava tanto, aveva due gatti e mi aveva detto, qualche settimana fa, che non ce la faceva più a lavorare così tanto, che si sentiva molto stanca ma soprattutto che aveva voglia di fermarsi, di tornare a casa e trovare qualcuno che l'aspettasse. Aveva solo un paio d'anni più di me, non era particolarmente simpatica o accomodante ma quando ti voleva bene te ne voleva davvero, proprio perché non ne voleva a tutti, e quando faceva festa era una forza della natura. Con alcuni dei suoi organi sono stati salvati due bambini e una donna.
Capire o dare un senso ad avvenimenti come questo non é possibile, l'unico percorso sano che si possa pensare di intraprendere (per chi resta) é quello dell'accettazione.
Io reagisco sempre allo stesso modo: mi perdo dentro a giorni bui pieni di domande e amare constatazioni, rimango incastrata in vicoli ciechi, strade strette dai muri alti senza via di fuga e poi arriva, come sempre, l'ansia del tempo. Tic tac tic tac e tu che fai?
La mia ansia é strana perché io in realtà non credo di aver mai sprecato un solo minuto della mia vita: tutto ciò che decidiamo di fare e persino ciò che subiamo contro la nostra volontá, può avere un valore e trasformarsi in una carta da giocare nel futuro.


La mia ansia é più del tipo "non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi".
Banale? Non se si tiene conto di un'altra componente esistenziale, la paura. Siamo circondati e oppressi dalla paura: paura che il nostro paese fallisca e si finisca a far la fame (per molti è già cosi purtroppo) paura di essere giudicati, di essere traditi, paura dei serpenti, dell'immigrato, delle malattie infettive, degli alieni, paura di fare il bagno dopo mangiato. Paura di fallire. Paura di dire la verità e non essere creduti, paura di dubitare, di aprire il proprio cuore e diventare così vulnerabili. Io per esempio mi sveglio di notte e sento i miei battiti e penso "Ecco ci siamo, adesso si ferma, il prossimo non lo fa, un impulso elettrico di meno o di troppo e ciao, buio, terra, silenzio, non ci sei più o meglio, non SEI  più".
In un ambiente così saturo di timore diventa difficile fare ciò per cui siamo al mondo: vivere con la percezione piena e consapevole di ciò che accade, con la responsabilità di scegliere come vivere e da che parte stare, in quanto dotati del libero arbitrio. La paura inibisce e ci spinge a rimandare, e questo è ciò a cui mi riferivo prima.
Eppure, nonostante l'ansia,  non credo sia giusto divorare forsennatamente tutto ciò che ci si trova davanti (è questo il diktat sociale del nostro tempo) ma nemmeno guadare il fiume con eccessiva prudenza.



Proprio in questi giorni mi é stato proposto un nuovo lavoro in un posto sicuro e ovattato, clientela super selezionata, vendita al pubblico di orologi da 50 mila euro l'uno in su, nonchè di diamanti. Ho fatto una prova e una ragazzina mi ha chiesto un bracciale da regalare alla sua mamma per il compleanno: è uscita dal negozio con un tennis da 5 mila euro e rotti. Dopo essere stata sveglia un paio di notti a pensarci ho fatto la mia scelta e ho rifiutato. Perchè a settembre andrò avanti col mio progetto di tesi specialistica sul guru delle anime Hayao Miyazaki.
 
 
Perché non voglio essere una persona che vive per lavorare bensì il contrario. Esistono troppi libri da leggere, troppi posti da vedere, troppi film da guardare, per pensare di dedicarmi religiosamente al lavoro. In quel posto avrei dovuto esistere solo in funzione di quel mondo e io non voglio vivere in un solo mondo perchè ce ne sono troppi e io vorrei poterne vivere e vedere il maggior numero possibile.  Preferisco fare un lavoro che mi permetta di prendere un caffè in pace  anche se non mi offre la possibilità di "fare carriera". Non mi interessa. Vedo il lavoro come uno strumento per mantenermi e questo é quanto, questo è il mio credo personale (ovviamente) non è un assunto universale valido per tutti. Credo che un lavoro possa diventare missione solo se socialmente utile: tutto il resto sono servizi, e se si prova piacere nel farli va benissimo, si migliora la qualità della propria vita e delle proprie giornate (per es. non credo nell'oggetto "orologio", non mi lascerò mai invischiare dalle acque melmose delle "fedi" aziendali -il Nostro marchio, la Nostra politica, siamo un gruppo forte e poi appena decidi di fare un bambino sei fuori dai giochi e vali meno dell'ultimo sciacquabroccoli del mondo- ma se un mio cliente va via soddisfatto sono contenta anch'io, che poi il sistema capitalistico sia destinato a fallire beh questo è un altro discorso...)


Ok, non volevo dilungarmi su questo aspetto ma credo che l'atteggiamento nei confronti del lavoro, ai giorni nostri, sia l'essenza del percorso esistenziale dei comuni mortali. Certo Paris Hilton non avrà bisogno di fare tutte queste considerazioni, ma di sicuro si perde una bella fetta di consapevolezze importanti. 

Ho speso due parole in più per giungere a due conclusioni in realtà molto semplici: la prima è di non credere che la felicità sia qualcosa di indefinito e lontano che prima poi arriverà, magari vincendo al Superenalotto, la seconda è che il tempo passa e la felicità coincide con la chance, la possibilità di essere vivi oggi,  di esserci, di respirare, di poter scegliere e cambiare tutto in ogni secondo,  se non proprio tutto almeno l'angolo di osservazione sull'alto del quale ci arrocchiamo per  guardare il mondo.
La vita è adesso, e mai come oggi credo che tra mezz'ora potrebbe essere troppo tardi, e allora perchè procrastinare e smettere di costruire i nostri sogni?
 
 



 

sabato 1 giugno 2013


Ho visto "Treno di notte per Lisbona" al cinema Romano, in piazza Castello, a Torino.
Qualsiasi film visto al Romano diventa bello, già solo quando entri in quella galleria sotto i portici dove i rumori (del traffico e del vociare sguaiato fuori dal Mc Donald) si attutiscono e i gesti si fanno più lenti, dove attraverso le vetrine vedi gli avventori del Baratti che si muovono come manichini su un palcoscenico, tra le luci gialle e la penombra della sera.
Il Romano è uno degli ultimi cinema con gli interni in marmo, i colonnati e i soffitti alti, i tappeti rossi a terra, consumati, con le cassiere di una certa età, quasi tutte dotate di orecchini vistosi, ognuna vestita con sobrietà ma a modo suo, non col logo (triste) del multisala stampato sulla polo blu (insieme ad un sorriso altrettanto stereotipato che occulta il giusto fastidio del salario minimo).
"Quanti siete? Due? Dieci euro".
E non il solito " Volete le poltrone laterali o centrali, volete l'abbonamento, volete il menu pizzacocarutto in omaggio"?
Ti siedi dove trovi, e se ti piace il film e vuoi la posizione centrale alzi il culo e arrivi prima.
E io sono arrivata prima per questo film.
La pellicola è lunga e secondo alcuni è soltanto un esercizio di stile, impeccabile ma noioso.
Come sempre ho letto la critica dopodichè me ne sono fregata e mi sono lasciata trasportare dalla storia e da Jeremy Irons (quanto lo amai in Lolita del 1997...).
Ovviamente vi consiglio di andarlo a vedere, altrimenti non ne parlerei (magari anche Lolita, se non l'avete già visto). 
 


É una storia sull'amicizia e sulla necessità, a volte, di lasciare il vecchio "noi-stessi" dall'altra parte della strada, attraversando senza un semaforo, senza bagagli, magari solo con qualche buona idea in testa, dritti di corsa verso quello che potrebbe davvero essere... l'ultimo treno.

 
Intanto ho finalmente finito "Underworld" di De Lillo e anche se è un bel mattone da digerire lo consiglio a tutti, leggendolo ho capito perchè De Lillo è considerato il maestro della letteratura postmoderna americana. Escludendo gli orientali, solo con Zola mi è capitato di leggere pagine di così rara bellezza e di profonda suggestione. Il Don non racconta solo storie ma ti fa compenetrare i significati di altre esistenze oltre alla tua.
Finito questo libro ho provato il solito senso di vuoto che si prova ad abbandonare i personaggi che ti hanno tenuto compagnia di notte, sul pullman o in metrò, e che hai imparato a capire e ad amare. Per colmare il vuoto, e allo stesso tempo, alla ricerca di qualcosa di un po' più leggero e veloce da masticare per saziare la mia fame di  storie, sono andata a comprare "Adorata nemica mia" di Marcela Serrano.

 
Amiche, sorelle, donne, vi prego, leggetelo. Bisognerebbe essere visssuti per un po' in una casa latinoamericana per capire questo libro (la Serrano è cilena): a me è successo, ho gironzolato per 5 anni in una casa argentina e una delle donne che ricordo con maggiore affetto è proprio lei, C. una donna nata a Rosario, di origini indios, sui 55 anni, una mamma coraggiosa, sorridente, allegra, piena di forza, nonostante la vita gli avesse riservato uno dei colpi più bassi che si possano servire ad una madre.
Leggendo questo libro diventerete altre dieci donne, piangerete soffocando i singhiozzi e urlerete di gioia per i loro trionfi, le loro vendette acrimoniose, e magari ci sentiremo tutte un po' più vicine.
Quando siamo solidali tra noi distruggiamo ogni luogo comune, sfioriamo la telepatia e facciamo brillare la fiammella della creazione che qualcuno ha posto nel profondo dei nostri lombi, la scintilla che ci rende cicliche antipatiche odiose e adorabili.

 
Un libro sia per quelle che si svegliano presto al mattino che per quelle che dormono fino a tardi. 
Ma che finiscono le loro giornate entrambe allo stesso modo: guardando i propri figli, i genitori o i  compagni di una vita,  negli occhi, pregando silenziosamente che ogni loro passo sia protetto, senza mai smettere di porsi mille domande sulla vita, senza mai spegnere la fiamma del ricordo di ciò che ci ha tenute in vita: un mezzo sorriso, un abbraccio lontano, un amico, un amore.

 
 

mercoledì 22 maggio 2013

Sei sul pullman e stai andando a lavorare.
Ti viene in mente che è già mercoledì e sei due giorni in ritardo sulla pubblicazione del post quindicinale sul tuo blog.
Te ne rammarichi, perché quello è il tuo piccolo spazio, il momento in cui smetti di essere un corpo che adempie incombenze, e diventi una mente che si racconta.
E come hai già detto, se non ti racconti, non capisci.
Ti stai per avvicinare al centro commerciale, e la periferia si trasforma in campagna, quella campagna un po' imprecisa e zingaresca, nuovi complessi residenziali che vengono su di fianco a mini campetti di grano che verrà su anche lui intriso di smog, tra le cartacce e le buste di plastica che zoticoni senza volto hanno lanciato da automobili in corsa.
Quando arriva all'improvviso, una folgorazione nelle orecchie.


Arriva dalle tue cuffie ma in realtà arriva da molto più lontano: la voce di un ragazzetto cresciuto a Basildon negli anni '80 in una delle cittadine satellite che circondano Londra, una di quelle periferie in cui non c'è niente.
Eppure in quella voce di velluto (che ora l'uomo di 50 anni padroneggia con morbidezza ed eleganza) è rimasta l'eco del vigore adolescenziale e temerario che gli fece cantare Heroes di David Bowie dentro ad un pub davanti ad un giovanissimo Martin Gore il quale, ben lontano dall'immaginare cosa sarebbe diventato il suo gruppetto fissato con la musica elettronica, andava alla ricerca di un cantante che potesse funzionare anche da frontman, vista la netta propensione alla famiglia  e al posto fisso in banca di tutti gli altri membri, compreso se stesso).
La sua voce immatura, ma potente, sfida quella periferia (così vuota, così new romantic) e vince. 
Vince per trent'anni di fila.


La voce calda ti porta in una stanza dove di giorno brucia un bastoncino di incenso, vedi un ragazzo con la camicia bianca e il vassoio in mano e strade strette tra i palazzi, vedi una spiaggia col mare verde blu e le cuffiette bianche abbandonate sugli scogli, un pesciolino incastrato in una polla d'acqua tra le rocce, vedi i bagni di un campeggio con la lotta tra le radio portatili e i corpi accaldati da Giancarlo che ti circondano, ti spintonano (gli occhi vuoti, i corpi pieni) luci intermittenti che ti riportano dentro ad una macchina dove una voce dice 'le prime note sono quelle perfette e dovrebbero continuare per sempre' e nel silenzio della tua stanza, nel segreto della tua stanza riemergi come se uscissi dall'acqua, respiri a fondo riemergendo dal nulla, perché stavi affogando, e non te ne eri accorto.

Ti arriva tutto addosso come un treno, pezzi di una te dimenticata, impressioni provenienti da una vita così lontana che non sembra nemmeno la tua, ma gli odori e le sensazioni sono così vicine che se solo allungassi la mano le potresti toccare. Ti arriva tutto proprio quando arrivi alla tua fermata, e devi scendere.

E allora ti ritagli 10 minuti di tempo per dire a tutti quello che hai sentito, perché sai che anche se ognuno sentirà in modo diverso, vibrazioni differenti che rimandano ad altrettanti universi, sai anche che la risposta giusta alla disumanizzazione e alla desolante tristezza dell'oblio è quasi sempre CONDIVIDERE.
Ma lo fai parlando di te alla seconda, perché la tua immagine in queste due settimane è passata troppo in fretta in mezzo alla vita e non sei riuscita ad afferrarla.